Fiumi, in 50 anni le fasce fluviali consumate dall’urbanizzazione

Purtroppo il cemento e gli sbarramenti lungo in fiumi, adottati finora come ‘finta soluzione di sicurezza’ al pericolo alluvioni, sono dei veri e propri moltiplicatori del rischio.

Negli ultimi 50 anni negli ambiti fluviali, attraverso le varie forme di urbanizzazione, si è consumato suolo per circa 2.000 km2, qualcosa come circa 310.000 campi da calcio. Il dato è contenuto nel dossier del Wwf “Un futuro per i nostri fiumi”.

Eppure in questo arco di tempo non sono servite da lezione nessuna delle tante tragedie che hanno segnato la storia del territorio italiano. Un caso emblematico, citato nel dossier, è proprio quello di Longarone, la città tristemente nota per la tragedia del Vajont che nel 1963 fece quasi 2000 vittime. L’area urbanizzata di Longarone prima di essere spazzata via, si sviluppava su 59 ettari, ma con la successiva ricostruzione questa superficie si è praticamente quadruplicata. I tre quarti dell’urbanizzato, soprattutto le grandi zone commerciali e industriali, sono state collocate vicino all’alveo fluviale, spesso in aree individuate dall’autorità di bacino come ad “elevata” o “media pericolosità”.

Ma il trend di consumo di suolo lungo le sponde fluviali, sottoliea il Wwf, ha riguardato tutta l’Italia, con un picco significativo proprio nell’ultimo decennio, proprio quando gli ammonimenti del rischio idrogeologico, amplificato dai cambiamenti climatici, avrebbero dovuto spingerci a riconsiderare le politiche di gestione del territorio.

I numeri sullo stato di salute dei fiumi, tra gli ecosistemi di acqua dolce i più minacciati sul pianeta, amplificano la drammaticità della situazione: il 60% delle acque europee non versa in buono “stato di salute” e in Italia non si sta meglio visto che solo il 43% dei fiumi è in un “buono stato ecologico”, come richiesto nella Direttiva Quadro Acque (2000/60/CE), mentre i laghi sono solo al 20%. Fiumi gran parte “canalizzati”, sbarrati da dighe e altri ostacoli che ne hanno interrotto la continuità, sbancati dei loro boschi ripariali, dragati nei loro alvei. Il prelievo d’acqua per le irrigazioni è avvenuto in modo insostenibile, eccessivo e con scarichi inquinati; molti centri abitati non hanno ancora sistemi di depurazione e fognari adeguati e, per tutto ciò, la commissione Europea ha avviato diverse procedure d’infrazione.

I fiumi, prosegue il Wwf, sono una cartina tornasole della piaga del nostro territorio, il consumo di suolo: la mancanza di un’efficace pianificazione strategica ha consentito ai quasi 8000 comuni italiani di svilupparsi spesso in modo autonomo, rispetto al contesto territoriale a cui appartengono, e in modo scoordinato tra loro, esponendo i propri cittadini a una serie di rischi assolutamente non trascurabili.

Solo in Liguria quasi un quarto del suolo (23,8%) costruito entro la fascia di 150 metri dagli alvei fluviali, è stato occupato tra il 2012 e il 2015[1]. Si è costruito non solo a ridosso, ma dentro gli alvei. Secondo l’ISPRA solo nei tre anni prima del 2016 le regioni hanno continuato drammaticamente a consumare il suolo nelle aree di espansione dei fiumi, portando cemento e infrastrutture dentro la fascia dei 150 metri: il Trentino Alto Adige ha incrementato del 12% il consumo nelle fasce fluviali, il Piemonte del’9%, l’Emilia Romagna con dell’8,2%, la Lombardia dell’8% o la Toscana del 7,2% (ISPRA, 2016). Considerando l’assetto demografico dei territori che ricadono in fasce soggette alla pericolosità delle alluvioni (categoria media ed elevata ), possiamo dire che vi sono oltre 7,7 milioni di italiani a rischio alluvioni.

“Per cercare di contenere ed invertire questo trend sarà necessaria un’articolata, lunga e complessa azione che tenga conto della gigantesca dimensione sociale coinvolta; un’azione difficile ma indispensabile in quanto altrimenti, secondo la stima corrente, si potrebbe raddoppiare in soli 10 anni l’odierna densità dell’urbanizzato ‘disperso’, con effetti ancora più irreversibili.”

Ma qualcosa si sta muovendo: il dossier WWF offre molte soluzioni basate sulla natura (“nature based solution”) per recuperare le funzioni ecologiche del territorio partendo da alcuni casi di città europee che potrebbero essere riproposte nelle nostre città. Si tratta di casi di “sistemi di drenaggio urbano sostenibile” (Ruscello di Gohard, Nantes, Fiume Sprea, Berlino), “riqualificazione fluviale in città” (Fiume Marden, Calne, Fiume Isar, Monaco, Fiume Ravensbourne, Londra, Rio Mareta, Vipiteno, Fiume Great Ouse, Milton Keynes, Fiume Vidå, Tønder, torrente Lura in provincia di Como, Fiume Mayesbrook , Fiume Gallego, Zuera, il progetto europeo horizon2020: “clever cities”.

“La rinaturazione è indispensabile per favorire il sempre più urgente adattamento ai cambiamenti climatici, ma è anche conveniente: da alcuni studi, ad esempio, sull’industria della rinaturazione (restoration ecology) si evidenzia che gli effetti occupazionali totali vanno da 10,4 a 39,7 posti di lavoro per 1 milione di dollari investiti, mentre con l’industria petrolifera e del gas ne supporta circa 5,3 posti per 1 milione di dollari investiti.”

Il dossier del Wwf viene presentato il 21 novembre a roma durante un convegno, contemporaneamente al lancio ufficiale della campagna WWF #LiberiAmoifiumi che prevede eventi, iniziative, attività di citizen science per liberare i corsi d’acqua da inquinamento, sbarramenti e altri ostacoli che snaturano l’habitat dei fiumi italiani.

SCHEDA: LE PROPOSTE DEL WWF

Il WWF ritiene che i distretti idrografici e le città metropolitane possano essere tra i principali soggetti per favorire un positivo, diffuso ed efficace adattamento ai cambiamenti climatici.

Il WWF sostiene fermamente la necessità di applicare in modo corretto le Direttive europee su “Acque” e “Alluvioni” e per questo ribadisce la necessità di rimettere al centro della pianificazione e del coordimamento di tutti i soggetti sul territorio, le Autorità di bacino distrettuale.

Ritiene inoltre cruciale:

1. Adeguare, integrare e rendere operativo il “piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici”, identificando con chiarezza gli attori istituzionali per la sua attuazione, fornendo una definizione più cogente delle azioni necessarie e fonti di finanziamento.

2. Rilanciare la centralità delle autorita di distretto. Alle Autorità di distretto, adeguatamente rafforzate sul piano istituzionale e organizzativo, come previsto dalle Direttive europee “Acque” e “Alluvioni” a garanzia dell’indispensabile coordinamento delle conoscenze, degli interventi in materia di mitigazione del rischio e di adattamento ai cambiamenti climatici, deve essere affidato il compito, in stretta collaborazione con le regioni, di:

a. avviare una diffusa azione di rinaturazione fluviale realizzando “interventi integrati per ridurre il rischio idrogeologico e per il miglioramento dello stato ecologico dei corsi d’acqua e la tutela degli ecosistemi e della biodiversità, promuovendo in via prioritaria gli interventi tutela e recupero degli ecosistemi e della biodiversità” (L. 133/2014);

b. promuovere la realizzazione di “infrastrutture verdi” (risoluzione della Commissione europea 2013/249);

c. garantire la manutenzione del territorio per tutelare la funzionalità dell’ecosistema e mantenere un adeguato equilibrio territoriale ambientale;

d. garantire un approccio interdisciplinare alla definizione delle azioni sugli ecosistemi fluviali e, soprattutto, il coinvolgimento delle adeguate competenze nella progettazione e realizzazione degli interventi di difesa del suolo, di miglioramento dello stato ecologico dei corsi d’acqua e di manutenzione del territorio.

3. Promuovere il ruolo delle “città metropolitane” come laboratori dell’adattamento ai cambiamenti climatici su area vasta, favorendo risorse per progetti e azioni innovative volte principalmente a:

a. delocalizzare insediamenti dalle aree a rischio,

b. promuovere azioni diffuse di drenaggio urbano sostenibile,

c. realizzare progetti integrati per la mitigazione del rischio e per la riqualificazione ambientale,

d. adeguare i sistemi di distribuzione e depurazione delle acque.

4. Garantire le necessarie risorse economiche per la difesa del suolo, la mitigazione rischio idrogeologico e il miglioramento dello stato ecologico dei corpi idrici.

5. Il ruolo dei comuni: stop al consumo del suolo.

I Comuni devono:

a. dare vita ad una nuova fase di pianificazione urbanistico-ambientale che ricomprenda le reti ecologica e renda effettiva la tutela della biodiversità urbana, individuando nella zonizzazione su scala comunale le aree che devono essere verdi e che devono essere lasciate libere per rispondere alle esigenze di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici;

b. delocalizzare gli edifici civili e industriali situati nelle zone a rischio per ridurre i fenomeni di sprinkling e favorire una politica insediativa a breve termine, caratterizzata da processi di densificazione/infilling e, a lungo termine, di shrinkling/riqualificazione.

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