Si sono tenuti ieri alla Camera dei Deputati gli Stati Generali sui cambiamenti climatici, in vista dell’appuntamento di Parigi.
Il Ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti è intervenuto su diversi temi, partendo da una premessa: Bisogna “prendere in mano il futuro del pianeta a Parigi e del nostro paese qui a Roma, affrontando con decisione e con azioni incisive a livello internazionale il surriscaldamento globale e spingendo con chiarezza ed energia il nostro sistema produttivo nazionale verso lo sviluppo sostenibile e verso l’economia circolare.”
Galletti ha voluto commentare anche l’enciclica di Papa Francesco sulla cura della casa comune: “Siamo a un bivio che non è solo climatico, politico ed economico, ma è anche etico. Questo io credo sia il valore più profondo dell’enciclica papale.”
Le parole chiave: mitigazione, adattamento, trasferimento tecnologico. Tenendo ben presente che “si prevede che nei prossimi 20 anni la domanda di energia nel mondo crescerà del 40%. O sarà pulita o ogni tentativo di contrasto al surriscaldamento globale sarà inattuabile.”
Il Ministro ha toccato anche interventi in arrivo riguardo al dissesto idrogeologico: “oggi è prevista una riunione al Ministero per definire con tutte le regioni interessate la ripartizione dei 600 milioni stanziati per gli interventi urgenti nelle aree metropolitane ad alto rischio.
Entro giugno sarà emanato il decreto che definirà le singole opere e la ripartizione dei fondi, entro luglio firmeremo gli accordi di programma con le Regioni interessate. Poi a spron battuto dovranno partire i cantieri.”
Di seguito il discorso del Ministro.
Abbiamo ascoltato stamattina un qualificatissimo parterre istituzionale che credo abbia chiarito come i temi che trattiamo non siano rinchiudibili nel perimetro dell’ambiente, inteso come recinto di addetti ai lavori, ma riguardino una visione del sistema socio-economico internazionale e,profondamente, l’idea che abbiamo dell’Italia del futuro.
La transizione
Viviamo in un momento cruciale di transizione. Dalle scelte che faremo nei prossimi mesi dipenderà quello che con enfasi, giustificata, chiamiamo “il destino del pianeta”, ma anche il destino dell’Italia, come protagonista dello scenario economico e politico mondiale.
Possiamo decidere di non decidere, scegliere di non fare o di fare poco, e condannare la Terra ad un crescente riscaldamento globale i cui effetti devastanti sono già in atto e ne abbiamo purtroppo prove evidenti anche in Italia.
E possiamo decidere nel nostro paese di non seguire l’economia del futuro,condannando l’Italia ad essere passato, retroguardia, sempre più marginale ed economicamente obsoleta.
Perché se la partita del clima è ancora drammaticamente aperta, quella economica è già decisa. Il futuro è della green economy: lì i dirigeranno gli investimenti, lì cresceranno i posti di lavoro.
Dobbiamo decidere, con coraggio. Prendere in mano il futuro del pianeta a Parigi e del nostro paese qui a Roma, affrontando con decisione e con azioni incisive a livello internazionale il surriscaldamento globale e spingendo con chiarezza ed energia il nostro sistema produttivo nazionale verso lo sviluppo sostenibile e verso l’economia circolare.
Siamo ad un bivio storico a pochi mesi dalla conferenza di Parigi e abbiamo ascoltato tutti pochi giorni fa la voce del Papa che ha detto a chiare lettere come stanno le cose e ci ha messo dinanzi le nostre coscienze e le nostre responsabilità politiche: non agire è immorale.
Siamo a un bivio che non è solo climatico, politico ed economico, ma è anche etico. Questo io credo sia il valore più profondo dell’enciclica papale.
La classe politica internazionale, come il re della famosa favola, è nuda.
Non può più fingere di non sapere, non può nascondersi dietro tecnicismi. La questione è anche, io dico soprattutto, etica.
Verso Parigi
La conferenza di Parigi sarà uno snodo chiave. Io dico che è l’ultima chiamata. Le conseguenze di un fallimento sarebbero disastrose per il processo negoziale e aprirebbero un solco difficilmente sanabile in tempi brevi fra nord e sud del mondo, fra emergenti come Cina, India, Brasile Sudafrica e paesi industrializzati.
Ma di cosa dovrà parlare questo accordo globale? Le parole chiave sono due: mitigazione e adattamento.
Per i non esperti della specifica terminologia del negoziato sui cambiamenti climatici – ed entrando così nel vivo dello stato dell’arte in vista della Conferenza – va detto che quando si parla di mitigazione si tratta degli impegni per la decarbonizzazione dell’economia, di tagli alle emissioni.
Quando si parla di adattamento si parla degli interventi per fronteggiare le conseguenze del Climate Change e quindi si parla essenzialmente di soldi, risorse, stanziamenti che in linea generale devono andare dai paesi ricchi ai paesi poveri insieme alle misure che devono essere prese da tutti i paesi.
Collegato a questi due temi chiave è quello del trasferimento tecnologico, cioè dell’impegno delle società più ricche a dotare i paesi poveri di tecnologie in grado di consentire il loro sviluppo senza che esso pesi negativamente sul bilancio climatico.
Un accordo sarà possibile solo se si troverà un’intesa su questi i temi.
Ci dovranno essere paesi che dovranno consumare meno energia e paesi che di enorme energia avranno bisogno per crescere, ma dovrà essere tendenzialmente energia pulita.
Si prevede che nei prossimi 20 anni la domanda di energia nel mondo crescerà del 40%. O sarà pulita o ogni tentativo di contrasto al surriscaldamento globale sarà inattuabile.
Questo richiederà un cambiamento radicale del sistema economico mondiale. La questione non è se l’economia mondiale andrà o meno verso la decarbonizzazione, ma i tempi di realizzazione di questo processo.
I paesi che prima degli altri e meglio affronteranno la trasformazione del sistema produttivo in chiave di sostenibilità ambientale avranno vantaggi competitivi nel futuro in un mercato globalizzato.
L’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA)1 stima, ad esempio, in 5 trilioni di dollari gli investimenti aggiuntivi che si renderanno necessari dal 2020 al 2035 per sostituire le tecnologie e gli impianti obsoleti che utilizzano in maniera inefficiente risorse scarse. Parliamo di 5 miliardi di miliardi di dollari, una cifra enorme: 5 seguito da 18 zeri.
La stessa IEA valuta che la non-azione costa più di 500 miliardi di dollari aggiuntivi di investimenti che si renderanno necessari nel prossimo decennio. Ogni dollaro non investito oggi in progetti a basso contenuto di carbonio richiederà 4 dollari di investimento aggiuntivi dopo il 2020.
E’ il cosiddetto “costo del non fare”.
L’Italia ha sperimentato sulla propria pelle, sul proprio territorio, quanto alto sia il costo della non azione, penso solo al dissesto idrogeologico, che ha comportato in questi anni oneri economici più pesanti di qualsiasi intervento preventivo ed ha causato la perdita di decine di vite umane.
Molto è stato fatto in questo campi e D’Angelis ve ne ha parlato, molto resta da fare, ma molto stiamo facendo adesso in questo momento.
Oggi è infatti prevista una riunione al Ministero per definire con tutte le regioni interessate la ripartizione dei 600 milioni stanziati per gli interventi urgenti nelle aree metropolitane ad alto rischio.
Entro giugno sarà emanato il decreto che definirà le singole opere e la ripartizione dei fondi, entro luglio firmeremo gli accordi di programma con le Regioni interessate. Poi a spron battuto dovranno partire i cantieri.
Cosa vogliamo da Parigi
Ho avuto l’onore e l’onere di guidare, quale presidente di turno, la delegazione UE all’ultima COP che si è svolta nel dicembre scorso a Lima. Già in quella occasione abbiamo delineato con chiarezza le aspettativa europee ed italiane nei confronti dell’intesa sul clima.
Noi puntiamo ad un accordo che sia:
Universale/globale (tutti devono partecipare, le maggiori economie devono essere protagoniste)
Ambizioso (come ambizioso è l’impegno europeo)
Durevole (l’orizzonte temporale è il lungo termine, occorre raggiungere un accordo che fissi gli obiettivi di lungo termine e i principi cardine, e includa il suo meccanismo di revisione per non dover rinegoziare l’accordo globale di nuovo tra 5-10 anni)
Dinamico (dove gli obblighi non sono statici ma riflettono l’evoluzione reale delle capacità e responsabilità)
Trasparente (perché gli impegni assunti possano essere verificati e comparati con un robusto sistema di monitoraggio dei risultati raggiunti).
L’Italia verso Parigi
La strategia italiana verso la COP21 è chiara ed è saldamente incardinata nella linea Europea che è stata assunta dai capi di Governo nell’ottobre scorso con l’intesa Clima-Energia 2030 e che è stata espressa a Lima in dicembre.
Ma io credo che l’importanza dell’appuntamento, richieda, anzi imponga il più ampio coinvolgimento, la più ampia partecipazione e la maggiore consapevolezza possibile da parte di tutte le componenti della società italiana che chiameremo a dare un contributo in vista della conferenza.
Nella nostra road map nazionale verso Parigi il Ministero dell’ambiente è impegnato a continuare ed assicurare da qui a dicembre:
il confronto con gli stakeholders (enti locali, associazioni non governative)
l’apertura di un tavolo di confronto con la Confindustria su temi europei e del negoziato
Tale aperto e serrato confronto comprenderà i lavori preparatori alla presentazione del Green Act, allargati alla partecipazione di tutti i soggetti interessati, e che traccerà obiettivi e strumenti per un’economia a basso contenuto di carbonio, l’uso efficiente delle risorse e la promozione dell’economia circolare circolare nel quadro della più generale strategia ambientale per lo sviluppo sostenibile che il Parlamento ci chiede di definire nei prossimi sei mesi.
Green Act, business plan del futuro
Ci sono due elementi, uno macro economico globale e uno giuridico internazionale che indicano inequivocabilmente la strada che il nostro paese deve percorrere nei prossimi decenni se vuole intercettare la corrente dello sviluppo mondiale ed esserne protagonista.
L’anno scorso, il 2014, è stato il primo anno di crescita mondiale, dopo la lunga crisi, in cui le emissioni di gas serra del pianeta non sono cresciute. Questo è un segnale positivo perché indica che è possibile lo sviluppo economico senza aggravare il bilancio ambientale. Ma significa anche che si è messo in moto un meccanismo di investimenti pubblici e privati attorno all’economia de-carbonizzata.
Il peso della cosiddetta economia verde è ingente: il governo britannico stima che dal 2004, gli investimenti globali nelle energie “pulite” sono cresciuti del 669% raggiungendo un valore di 269 miliardi di dollari all’anno.
Gli effetti sono evidenti anche sull’occupazione. Nel 2011 circa 8 milioni di cittadini europei erano impiegati nei settori ambientali e nelle attività a basso contenuto di carbonio.
La Commissione Europea prevede che solo in Europa altri circa 6.5 milioni di posti di lavoro in questi settori.
In Italia, come chiaramente documentato nel Rapporto GreenItaly 2014, elaborato da Unioncamere e dalla Fondazione Symbola, emerge che alla green economy si devono 101 miliardi di euro di valore aggiunto, pari al 10,2% dell’economia nazionale e che i cosiddetti green jobs sono oggi in Italia più di 3 milioni. Accanto a questi si possono annoverare altre 3 milioni e 700 mila figure ‘attivabili’ dalla green economy.
Questo scenario, impone all’Italia l’adozione di un Green Act che dovrà costituire un vero business plan, un eco-piano “industriale” del nostro paese, funzionale a definire la strategia nazionale per governare e far fronte alle corrispondenti trasformazioni dei processi economici e produttivi.
Il Green Act si pone l’obiettivo ambizioso di porre le “scelte sostenibili”, quale “chiave per la crescita economica e il benessere dei cittadini”. La definizione del Green Act avverrà fornendo un quadro di rifermento normativo chiaro e univoco a tutte le filiere della sostenibilità:
Energia e Clima (Efficienza energetica, rinnovabili, nuove tecnologie)
Uso efficiente delle risorse (Dissesto – Bonifiche – Mare – Forestazione);
Gestione industriale dei rifiuti (eliminazione delle discarica massimizzazione recupero, riuso riciclo)
Infrastrutture verdi e rigenerazione urbana e Trasporti;
Green Economy (Fiscalità – Settori Produttivi – Ricerca e Innovazione);
Agricoltura, Biodiversità e aree protette;
La nostra rivoluzione verde ha un obiettivo temporale, fissato dall’intesa europea, il 2030. Entro quella data dobbiamo raggiungere i target concordati e potremo farlo solo se vedremo la riconversione della nostra economia in chiave di sostenibilità.
La rivoluzione è già iniziata, il Green Act le darà un supporto normativo organico e la inserirà in una visione complessiva dello sviluppo futuro del nostro paese.
Abbiamo fretta di cambiare l’Italia per darle un futuro migliore, un futuro più green, un futuro di maggiore occupazione e sviluppo sostenibile.
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