Arctic 30, “Le mie prigioni in Russia” di Christian D’Alessandro

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Pubblicata dal quotidiano La Stampa la lettera di Christian D’Alessandro, l’attivista di Greenpeace arrestato in Russia durante un blitz su una piattaforma Gazprom nell’artico e scarcerato lo scorso 21 novembre:
“Torno finalmente a respirare dopo due mesi di detenzione, nonostante sia libero su cauzione, e su di me ancora penda questa assurda accusa per la quale rischio fino a 7 anni di carcere per un crimine che non ho commesso.
In carcere ci si sveglia alle 6 del mattino, in una cella di 8 metri quadrati. Dal cortile, radioprigione diffonde l’inno nazionale russo: proseguirà fino alle dieci di sera con musica che anche se non mi piace sono costretto ad ascoltare. La luce è rimasta accesa tutta la notte e resterà accesa tutto il giorno, sempre.

In cella con me ho un «amico» russo che si trova lì per ben altri motivi, e con il quale non posso comunicare, perché lui non parla inglese e il mio russo è solo all’inizio. Di tanto in tanto si sentono dei colpi nel muro provenienti dalla cella a fianco, immagino sia un saluto e rispondo. L’odore della prigione è un misto tra polvere, cemento, ferro e fumo di sigaretta: mi si attacca addosso, penetra nelle fibre dei vestiti. I rumori all’inizio sono orrendi, poi si impara a conoscerli e ci si abitua. I passi di una guardia, le chiavi suonano ciondolando dalle sue mani prima di infilarsi nella serratura, dopo due mandate la porta di ferro si apre e viene richiusa con violenza.
Mi alzo dalla branda, nonostante il sottile materasso ho sentito per tutta la notte nella mia schiena le sbarre di ferro che costituiscono la struttura del letto, perchè la saldatura fai da te è stata fatta male. Sono già vestito, ho dovuto indossare tutto quello che avevo per non sentire freddo sotto la coperta puzzolente; mi piacerebbe lavarmi, ma la doccia qui si può fare una volta a settimana, mi limito quindi a faccia e denti, perché in cella ho un lavandino, ma l’acqua gelida vien fuori da un vecchio tubetto di dentifricio utilizzato come prolunga, legato alla tubatura che fuoriesce dal muro. Sono pronto, sì, ma per fare cosa? Ah già, l’ispezione. Due volte al giorno vengo perquisito, e le sbarre alla finestra vengono battute da un martello di legno.
I giorni scorrono tutti uguali, sono fortunato perché ho dei libri e posso scrivere un diario. Sulla porta c’è uno spioncino, non basta la telecamera che mi riprende 24 ore su 24, più volte durante la giornata una guardia viene a controllare se io e il mio giovane amico russo siamo ancora lì.
Per un’ora al giorno vengo portato a «camminare». Le guardie hanno imparato a dire «hands back» perché è così che devo camminare lungo i corridoi mentre vengo condotto nella cella dell’ora d’aria, ma spesso quasi perdo le scarpe, perché non mi è permesso avere i lacci. Non capisco quale sia lo scopo di questa cella, mi guardo intorno e vedo solo quattro mura. Sono solo: i Sizo sono centri di isolamento pre-processuale in cui non è consentito avere contatti con i detenuti di altre celle. Il pavimento è un misto tra fango e ghiaccio, e a causa della tettoia non riesco a vedere il cielo. In due mesi non ho mai toccato un raggio di sole.
Potrei raccontare per ore la mia esperienza, e del resto già l’ho fatto in prigione nei miei diari, ma non è il mio lavoro. Non sono un giornalista come alcuni dei miei compagni, anch’essi arrestati. Io amo il mare in tempesta, e ho scelto di navigare, e di farlo per Greenpeace, che è per me come una seconda famiglia. Non sono un eroe ma semplicemente uno dei tanti a cui è capitato di essere accusato ingiustamente, e sicuramente uno tra i più fortunati, visto che l’interesse mediatico suscitato dalla mia vicenda è servito ad attirare l’attenzione sul mio caso mentre altri vengono spesso dimenticati.
Mentre vivo questa specie di esilio al contrario confinato qui a San Pietroburgo, un pensiero va ai compagni e alle compagne che ora più che mai stanno lottando per fermare il «biocidio» nella mia terra, la Terra dei Fuochi. Perché l’impegno di chi combatte in difesa dell’ambiente, perseguendo ideali pacifisti e nonviolenti, non può e non deve essere diversificato mai. Non importa che sia a casa nostra o dall’altro lato del mondo, non importa che si tratti di un albero, di un cetaceo, di un fiume in piena, del mare, della terra, o dell’aria che respiriamo, purché si continui a difendere i nostri diritti e a chiedere un cambiamento. A quelle persone adesso mi sento vicino come non lo sono mai stato prima, perché io sono quello che loro sono, e dunque tutti pirati, tutti teppisti, finché non verremo ascoltati.
Non ho niente di cui pentirmi perché non ho commesso nessun crimine. Pentirsi equivale a riconoscere delle colpe, ad arrendersi, ad avere paura di chi cerca di metterci a tacere ingiustamente, significa darla vinta a coloro che mascherano questo sfrenato sfruttamento del pianeta in virtù di un finto progresso collettivo e a beneficio di tutti, quando in realtà i vantaggi sono dei soliti pochi, mentre i rischi e i danni che ne conseguono riguardano tutti gli altri.
Ed è inutile stupirsi dei disastri ambientali se poi non si appoggiano le battaglie fatte per cercare di evitarli. Ecco perché eravamo lì, per evitare che l’Artico si tinga di nero come è successo nel Golfo del Messico dopo la tragedia della Deepwater Horizon nel 2010. Invito a uscire dall’indifferenza, perché «quando l’ultimo albero sarà stato abbattuto, l’ultimo fiume avvelenato, l’ultimo pesce pescato, ci accorgeremo che non si può mangiare il denaro”.

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