Ministero dell’ambiente e sviluppo sostenibile: cambiamenti climatici, dissesto idrogeologico e green economy

Ministero dell’ambiente e sviluppo sostenibile: cambiamenti climatici, dissesto idrogeologico e green economy
Ministero dell’ambiente e sviluppo sostenibile: cambiamenti climatici, dissesto idrogeologico e green economy

Le linee programmatiche dell’attuale ministro dell’Ambiente, Gian Luca Galletti, sono state illustrate ieri nel corso dell’audizione in commissione Ambiente della Camera. Tra i punti approfonditi nel corso dell’Audizione, cambiamenti climatici, dissesto idrogeologico e green economy. Dal documento:
Mi preme affrontare il tema dello “sviluppo sostenibile”. La problematica è complessa, e intenderei seguire un percorso articolato in quattro tappe.
La prima riguarda il quadro generale nel quale ci muoviamo e ci muoveremo nel prossimo futuro.

Attualmente il riferimento europeo è incardinato nel Pacchetto Clima-Energia che prevede, entro il 2020, una riduzione delle emissioni di gas serra del 20%, una quota del 20% di rinnovabili sul totale dei consumi e un risparmio energetico indicativo del 20% rispetto ai consumi di energia. Questi impegni europei, per l’Italia, al 2020, si traducono in una riduzione delle emissioni di CO2 del 21% rispetto al livello del 2005 per il settore energetico/industriale e un calo del 13% per gli altri settori (agricoltura, trasporti, civile, rifiuti); una quota delle fonti rinnovabili sui consumi finali di energia di almeno il 17%, tenendo conto della necessita di garantire nei trasporti un peso dei biocarburanti pari al 10%; una riduzione dei consumi primari di energia del 20% rispetto alle dinamiche “tendenziali” – questo è però un obiettivo “non vincolante”.
A fronte di questo quadro, per rispondere agli impegni, sono stati varati due importanti “documenti programmatici”:
la Strategia Energetica Nazionale (SEN), approvata con DM dell’8 marzo 2013, che colloca le politiche verdi in un contesto energetico ampio, traccia le linee di azione di medio-lungo periodo (fino al 2050) e fissa le priorità di azione: dal comparto elettrico a quello del gas cercando benefici per imprese e consumatori;
il Piano nazionale per la decarbonizzazione, approvato con delibera CIPE n. 17/ 2013, che individua invece un set di misure dettagliato e completo da mettere in campo per la riduzione della CO2.
Si tratta di un disegno ambizioso ma certamente, perseguibile. Ma non basta, dobbiamo andare oltre.
Lo scorso mese di gennaio, la Commissione Europea ha adottato la Comunicazione sul “Quadro Clima-Energia 2030”. L’obiettivo centrale è la riduzione dei gas serra del 40% rispetto al1990: a questo si aggiunge l’obbligo di coprire almeno il 27% dei consumi energetici dell’Unione con fonti rinnovabili.
Sul fronte dell’efficienza l’indicazione è ancora una volta più blanda e rinviata presumibilmente a metà del 2014.
Di fatto, mentre ci sarà una distribuzione dell’obbligo sulla riduzione della CO2, la Commissione Europea non ritiene necessario declinare il target UE sulle rinnovabili in obiettivi nazionali per lasciare flessibilità agli Stati membri.
E’ noto che questa impostazione è il risultato di un compromesso politico tra le diverse visioni degli Stati Membri.
Sebbene l’Italia abbia accolto con favore la proposta della Commissione Europea sul Quadro al 2030, dobbiamo essere consapevoli che prendendo una prospettiva “extra-europea”, il contributo UE assumerà un valore di vero contrasto ai cambiamenti climatici solo se anche le altre Parti si assumeranno dei corrispondenti impegni. Infatti ad oggi l’Europa contribuisce alla riduzione delle emissioni globali solo per poco più dell’11%. Inoltre, a livello europeo, si dovrà arrivare a “dissociare” la crescita economica dall’aumento dei consumi di energia (il cosidetto decoupling). Saranno quindi necessarie politiche decise a supporto degli obiettivi quali: misure forti in materia di fiscalità energetica per favorire tecnologie e combustibili a basso contenuto di carbonio; esenzione dai vincoli del fiscal compact per gli investimenti destinati alla riduzione delle emissioni; riduzione dei sussidi ai combustibili fossili.
Un ruolo chiave sarà poi giocato dalla governance. E’ infatti essenziale garantire un coordinamento efficace delle politiche nazionali lasciando al tempo stesso i previsti margini di manovra nel mix delle politiche. In pratica si dovranno centrare gli obiettivi comuni permettendo scelte a livello nazionale efficienti sul piano dei costi.
In questo scenario, ciascuno Stato membro dovrà procedere ad una valutazione approfondita e dettagliata per assicurare che le azioni intraprese siano le più efficaci e, soprattutto, efficienti in termini della spesa, sostenibilità, sicurezza degli approvvigionamenti, crescita ed innovazione. Il secondo punto del percorso, è costituito dall’effetto dei cambiamenti climatici sul nostro territorio con le tragiche conseguenze del dissesto idrogeologico.
Come noto, gli effetti dell’aumento della temperatura provocano danni drammatici. In Italia, negli ultimi anni, la frequenza degli allagamenti è aumentata mentre la fragilità del territorio, a sua volta causata dal consumo del suolo e dalla mancata manutenzione, genera emergenze e provoca vittime.
Ritornano con una frequenza estremamente ravvicinata eventi climatici estremi: per citare casi recenti, la Liguria, la Lunigiana, la Garfagnana, la Versilia, la Sardegna e le pianure del Veneto.
E’ evidente la necessità di interventi straordinari e strutturali: alle vittime e allo scempio del territorio si aggiungono le spese “impreviste” per tamponare i danni, di gran lunga superiori ai costi della prevenzione. La serie storica degli eventi avrebbe dovuto orientare da tempo politiche e misure per la protezione delle zone più vulnerabili, anche sulla base dei dati raccolti ed elaborati dal Ministero: il 10% della superficie nazionale è ad alta criticità idrogeologica, e i comuni interessati sono oltre 6.000.
Purtroppo, quello che è stato programmato ed avviato è ancora parziale e frammentario: l’azione per la prevenzione del rischio idrogeologico e per la messa in sicurezza del territori procede con difficoltà e a “macchia di leopardo”.
E questo per i seguenti motivi:

  • le risorse finanziarie messe a disposizione delle Regioni sono gestite attraverso poteri “ straordinari” che si sovrappongono a quelli ordinari di governo negli usi del territorio; 
  • le risorse finanziarie assegnate sono assoggettate ai vincoli del patto di stabilità, e, comunque, non sono oggettivamente sufficienti; 
  • sono ancora scarse le misure incentivanti messe a disposizione delle imprese per investimenti finalizzati alla manutenzione ed alla messa in sicurezza del territorio; in molti casi gli interventi sono sottoposti ad estenuanti procedure autorizzative. 

Ma a queste problematiche si sta reagendo. E’ stata trasmessa al CIPE, a fine dicembre 2012, una proposta di delibera che individuava le linee strategiche da seguire in via prioritaria per la messa in sicurezza del territorio. Alla proposta è stato aggiunto un Rapporto preliminare sullo stato delle conoscenze scientifiche relativamente a impatti e vulnerabilità del nostro territorio.
In questo contesto è in corso di predisposizione una Strategia Nazionale per l’Adattamento ai Cambiamenti Climatici che prevede: la revisione periodica del Rapporto che ho appena richiamato; in molti casi gli interventi sono sottoposti ad estenuanti procedure autorizzative. 

A seguire, voglio fare riferimento al ruolo delle politiche energetico-ambientali. E’ ben noto che, negli ultimi anni, lo sforzo maggiore delle politiche verdi, almeno da un punto di vista finanziario, si è concentrato sulla produzione elettrica da rinnovabili.
Due semplici dati riassumono i fatti:

  • il peso delle rinnovabili sui consumi finali di elettricità è di circa il 30%, un livello che sino a poco tempo fa si sperava di raggiungere solo al 2020. 
  • ragionando in termini finanziari, in seguito alla massiccia espansione del fotovoltaico, il valore complessivo dei vari sistemi di incentivazione messi in piedi per le rinnovabili elettriche ha raggiunto un costo superiore ai 10 miliardi di euro/anno che, a regime, si ritiene arriveranno a 12,5 miliardi/anno. 

Decisamente meno esplosiva è stata invece la crescita delle altre “leve verdi” necessarie a centrare i target: quella delle rinnovabili termiche, dei trasporti e quella dell’efficienza energetica. Su questi fronti ci attendiamo nei prossimi anni un sensibile progresso.
Quindi, da un punto di vista strategico, la strada da seguire è chiara: spingere sull’efficienza energetica, favorire lo sviluppo delle rinnovabili termiche e accompagnare la crescita delle rinnovabili elettriche bilanciando il mix delle fonti.
Gli strumenti messi in campo, tuttavia, dovranno rivelarsi efficaci ed efficienti.
L’efficacia consisterà nella reale capacità di “coprire” al meglio tutti i settori: dagli interventi effettuati dalle famiglie, a quelli nell’industria, a quelli portati avanti dalla pubblica amministrazione. Questi ultimi due comparti rappresentano una “sfida nella sfida” per la loro complessità.
L’efficienza starà invece nelle modalità di gestione a fronte dei margini ristretti che oggi offre il finanziamento pubblico: come è ben noto, lo spazio è oggettivamente poco sia che si ragioni sulla fiscalità generale (cioè sul bilancio pubblico) sia che si ragioni in termini di oneri da scaricare sulle bollette.
Ciò premesso, è bene ricordare che recentemente sono state mosse leve importanti per andare nella direzione auspicata: nei mesi a venire queste stesse leve dovranno essere fatte funzionare al meglio.
Per quanto attiene, in particolare, alle energie rinnovabili elettriche e, più nello specifico, al fotovoltaico, con il Quinto conto energia si è provveduto a rendere maggiormente mirata l’incentivazione. La norma limitava il perimetro degli impianti ammessi al beneficio e riconosceva tariffe più alte agli impianti virtuosi.
Da un punto di vista finanziario, rimodulava e riduceva gli incentivi fissando un tetto di spesa massima. Questa fase è tuttavia terminata: il limite di spesa complessiva è stato infatti raggiunto e ci troviamo ora a gestire un nuovo passaggio indubbiamente delicato.
Pochi numeri rendono l’idea: secondo stime prudenti il settore conta 18.000 occupati, con un indotto di 100.000 lavoratori ed un patrimonio di potenza installata di 15.000 MW di picco, parti al 6% del fabbisogno nazionale di energia elettrica.
Servono dunque, oggi, interventi e norme che agevolino il mantenimento del mercato fotovoltaico: in questa direzione è importante aver incluso, con la legge di stabilità 2014, il fotovoltaico nella detrazione fiscale del 50% per le ristrutturazioni degli edifici.
In prospettiva, sono da menzionare le seguenti azioni che dovranno essere poste in essere:

  • semplificazione della connessione in rete del fotovoltaico; si presentano adempimenti di tipo tecnico-burocratico che appesantiscono i costi  d’investimento del settore: l’obiettivo è fare in modo che alla riduzione dei costi della tecnologia si aggiunga una riduzione dei costi indiretti;
  • semplificazione delle autorizzazioni degli impianti a fonti rinnovabili: ci sono le linee guida da migliorare con il contributo del Ministero per i beni culturali e delle Sovraintendenze. Si dovranno anche snellire l’autorizzazione con l’adozione dell’AUA – autorizzazione unica ambientale. In questa fase è necessario mettere a punto normative semplici e dare tempi certi di autorizzazione migliorando i sistemi di controllo per mantenere un giusto livello di guardia sugli impatti e il danno all’ambiente; 
  • revisione del meccanismo di “scambio sul posto” in modo da semplificarne le procedure e ampliarne l’applicazione; 
  • riconoscimento di un “premio programmabilità” con azioni evolute di forecasting oppure azioni di accumulo dell’energia; 
  • mantenimento degli incentivi solo verso le nuove tecnologie (es.: solare a concentrazione, soluzioni architettoniche valide per l’integrazione anche in edifici e dimore storiche, ecc.). 

Per quanto attiene alle fonti rinnovabili per il trasporto, è bene sottolineare che per raggiunge gli obiettivi europei sarà necessaria una azione decisa e coniugata ad una sorta di “operazione trasparenza”.
In particolare si ritiene che:

  • i biocarburanti dovranno essere prodotti in maniera sostenibile, ossia con una reale riduzione delle emissioni di CO2 e senza impatti negativi sull’ambiente locale (es. disboscamenti) o sugli usi alimentari dei terreni. In quest’ottica, solo la seconda e terza generazione danno una garanzia, motivo per cui è molto importante sostenerli in termini di ricerca e di incentivi anche fissando obiettivi minimi ad hoc. L’Italia vanta in materia una leadership tecnologica importante che occorrerà valorizzare sia in campo nazionale che internazionale; si dovrà orientare il settore verso la produzione più sostenibile, limitando il riconoscimento del valore doppio ai fini dell’obbligo del 10% solo ai biocarburanti di seconda generazione e a quelli prodotti da rifiuti e sottoprodotti che non abbiano già altri usi industriali; 
  • si dovrà puntare sullo sviluppo del biometano nei trasporti. C’è un potenziale importante sia in termini di volumi – fino a un miliardo di metri cubi l’anno – sia in termini di ricadute per la filiera industriale – si pensi alla leadership dell’industria italiana nel settore delle auto a metano. 

Sul piano dell’efficienza energetica si sono rafforzati i vecchi strumenti e ne sono stati introdotti di nuovi.
Vale la pena di sottolineare, al proposito, che la detrazione fiscale per le spese sostenute in interventi per la riqualificazione energetica degli edifici è’ stata innalzata dal 55% al 65% e confermata fino a dicembre 2014. Prosegue, poi, fino al dicembre 2015 ma scende al 50%. In proposito, pur considerando con favore l’estensione del beneficio, riterrei che:

  • la misura debba essere resa strutturale e non faticosamente rinnovata di anno in anno, o poco più; 
  • tale stabilizzazione dovrebbe accompagnarsi ad un fine tuning dello sgravio per evitare inefficienze e limitare il rischio di abusi. In particolare si potrebbero revisionare le aliquote differenziandole per tipologia di intervento (ad es. gli sgravi per le finestre potrebbero essere relativamente più bassi rispetto all’attuale) e inserire limiti di spesa unitaria per i materiali impiegati (ad es. le finestre sostituite non possono costare più di tot€/m2: tale accortezza è stata già adottata per gli interventi di efficienza energetica nella Pubblica amministrazione con il Conto Termico); 
  • nel valutare l’impatto della misura, insieme ai costi determinati dal riconoscimento dello sgravio fiscale, debbono essere adeguatamente considerati i benefici legati all’impatto economico incrementale diretto e agli effetti di crescita indotta. Tale approccio, oltre a rappresentare correttamente le ricadute della misura, consente di coglierne appieno le conseguenze sui saldi di finanza pubblica una volta entrate a regime. Il punto è che, se adeguatamente disegnate, nel giro di pochi anni le agevolazioni attivano crescita e generano maggiori entrate da imposte dirette e indirette tali da compensare le uscite a carico del bilancio pubblico. Relativamente a quest’ultimo punto si è già predisposto un approfondimento per una valutazione contabile a fronte di una stabilizzazione dell’Ecobonus. 

A questi strumenti normativi e di incentivazione se ne aggiungono altri che, direttamente e indirettamente, favoriscono il raggiungimento degli obiettivi. Cito, al proposito, tre grandi linee di intervento: Il Fondo per l’occupazione giovanile (Fondo Kyoto) che eroga finanziamenti a tasso agevolato a progetti e interventi nei settori della green economy e della messa in sicurezza del territorio dai rischi idrogeologico e sismico: si va dalle rinnovabili innovative, ai biocarburanti, all’efficienza, alle azioni per la riduzione dell’impronta ambientale di processi e prodotti.
La seconda linea che cito è Il Programma operativo interregionale “Energie rinnovabili e risparmio energetico” (POI Energia), centrato sulle Regioni Obiettivo Convergenza (Calabria, Campania, Puglia e Sicilia).
Il ministero dell’ambiente ha promosso interventi di efficienza di edifici/utenze pubbliche e piccoli impianti alimentati da fonti rinnovabili nelle aree naturali protette e nelle isole minori. La dotazione finanziaria disponibile è di circa 380 milioni di euro.
Per quanto attiene alla terza linea di azioni trasversali, ricordo che il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, impegnato da tempo nel supporto alle iniziative volontarie del settore produttivo italiano, ha avviato un intenso programma sull’impronta ambientale dei prodotti/servizi. Si cerca di sperimentare su vasta scala e ottimizzare le differenti metodologie di misurazione delle prestazioni ambientali armonizzandole e rendendole replicabili.
L’obiettivo ultimo è l’individuazione delle procedure di carbon management delle imprese e la diffusione nei processi produttivi di tecnologie e buone pratiche a basso contenuto di carbonio.
Tali attività rappresentano: un driver non solo ambientale ma anche di competitività per il sistema delle aziende italiane che tiene conto dell’importanza che oggi sul mercato è dato ai requisiti “ecologici” dei prodotti; un importante strumento di sviluppo economico e commerciale in direzione di un’economia sempre più sostenibile; un’opportunità per creare una nuova consapevolezza nel consumatore verso scelte più responsabili e comportamenti virtuosi.
Voglio chiudere questo breve excursus con la considerazione che più mi preme.
La Green Economy è un settore ad elevato potenziale in termini di crescita, innovazione e, soprattutto, di opportunità di lavoro. Considerate le caratteristiche delle professionalità richieste dalle imprese, i cosiddetti Green Jobs rappresentano in particolare un’importante occasione per i giovani con una buona preparazione. In una battuta, puntare sui settori verdi può essere una delle risposte efficaci alle difficoltà produttive/occupazionali del nostro sistema economico sia in un’ottica congiunturale, appunto contrastando la disoccupazione dove è più alta, tra i giovani, che strutturale, aumentando la qualità del capitale umano delle aziende. Dobbiamo lavorare sui giovani: oggi chi nasce ha già in sé una coscienza ambientale che va conservata e valorizzata. Non possiamo perdere l’occasione di far sorgere una nuova generazione di ‘nativi ambientali’, ovvero di giovani che mettono in pratica nei comportamenti quotidiani ciò che noi abbiamo dovuto imparare e loro già, in qualche modo, hanno nel loro DNA: la cultura del rispetto dell’ambiente.
Giova, inoltre, segnalare che è in avanzata sede di predisposizione un Protocollo di collaborazione tra Ministero dell’ambiente e MIUR, che ha come oggetto la gestione congiunta di piani di investimento per la ricerca e lo sviluppo nell’ampio settore della Green Economy e della tutela ambientale. E’ necessario concentrare le risorse e le competenze sugli obiettivi di filiera, che permettano cioè di realizzare consistenti iniziative di trasferimento tecnologico e innovativo al livello della produzione e del consumo, dall’edilizia sostenibile alle energie rinnovabili, alle produzioni manifatturiere, alle utilities (acqua, energia , gas) ai servizi di mobilità e logistica. L’obiettivo strategico è incorporare nei prodotti, nei servizi e nei processi quote decrescenti di impatto ambientale e quote crescenti di innovazione e produttività. Vorrei infine ricordare la delega fiscale approvata dal Parlamento a fine 2013, con valenza 12 mesi, che dà margini potenzialmente molto ampi di intervento in tema di fiscalità ambientale. Affronta esplicitamente il tema delle politiche europee sulla Green Economy e lo sviluppo sostenibile, oltre alla necessità di orientare l’economia verso modelli di produzione e consumo sostenibili.
Prevede inoltre il riutilizzo dei proventi a favore della riduzione della tassazione sui redditi, in particolare sul lavoro generato dalla Green Economy.
Sono intenzionato a confrontarmi con il ministro dell’Economia per proporgli un lavoro intenso tra le nostre amministrazioni. Potrebbe prendere la forma di una Commissione “Fiscalità ambientale” come ce ne sono state in Francia, Gran Bretagna e nei Paesi del Nord Europa.

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